Un'esperienza di Fede e di Amore
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- Categoria: Testimonianze
Le motivazioni che mi hanno spinto a fare per la seconda volta tra luglio e agosto, e per un mese, un’esperienza in terra mozambicana sono diverse: innanzitutto la mia personale vicinanza alla vita della fraternità cappuccina missionaria, ed in particolare al mio parente-zio P. Leone Innamorato da quasi cinquant’anni nella Zambezia; poi nel mio quindicesimo anno di consacrazione sacerdotale era giusto e doveroso - citando papa Francesco - “dedicare un po’di tempo per recuperare la serena armonia con il creato, per riflettere sul nostro stile di vita e i nostri ideali, per contemplare il Creatore, che vive tra di noi e in ciò che ci circonda, e la cui presenza non deve essere costruita, ma scoperta e svelata” (Francesco Lett. Enc. Laudato Si’, 225).
Imparare a vivere meglio il sacerdozio in Africa in un luogo dove credi solo di poter metterti a disposizione, fare qualcosa di concreto ed invece ti ritrovi sempre spiazzato, impotente, ferito, provocato e illuminato dalle tante miserie toccate con mano. Sono le povertà che costruiscono un impegno e uno stile nuovo, ti arricchiscono della presenza di Dio contemplata nei migliaia di volti incontrati in quei giorni di grazia. Un’autentica esperienza di amore e di grazia! Un momento di riscoperta del dono della fede e della vocazione ad essere pastore secondo il cuore di Dio.
L’itinerario mozambicano, vissuto insieme a P. Antonio Imperato, l’Avv. Vanni Serio e le nostre preziose guide P. Mimmo Mirizi, Fra Antonio Triggiante e gli altri frati cappuccini, è stato caratterizzato da una conoscenza del territorio (da Maputo, Inhambane, Beira, Gorongosa, Quelimane e nuovamente Maputo), e dei diversi progetti che cercano di portare, prima del pane materiale, lo stesso Gesù.
Sono tanti i momenti che potrei raccontare tra gli ammalati, anziani, bambini, famiglie, istituti, scuole comunitarie, villaggi e le comunità… anche assiepate alla discarica di Maputo.
Di uno in particolare ho sentito sicuramente un forte scossone nell’animo. Eravamo alla mensa ”San Francesco” tra i poveri di Quelimane, mentre tutti i commensali aspettavano seduti il loro unico piatto di riso con un po’ di carne e mezza patata (sicuramente l’unico pasto della giornata!), eravamo tra ragazzi, bambini con segni di malnutrizione addosso, anziani, disabili e mentre dall’altra parte un piccolo tendeva ansimante la mano ai piatti già pronti sul tavolo, ad un tratto il forte e deciso richiamo dai presenti al sottoscritto, a me, ad un sacerdote sconosciuto, a fare la mia parte in quel momento non mettendomi a servire alla mensa, né a pretendere solo di documentare con qualche scatto fotografico, a dare invece loro la santa benedizione e al pasto ricevuto… una vera grazia per chi non vive nella società occidentale dove spesso e volentieri si getta anche il cibo. Sembrava che mi dicessero: «Ti vuoi muovere a fare il tuo dovere? Dacci il nostro pane quotidiano!» Io pensavo al cibo materiale per loro, loro pensavamo al Pane della Vita prima di riempire il loro stomaco.
Tanto stupore nei miei occhi e gratitudine a Dio. Mi sono sentito veramente edificato, collaboratore di Dio, dei frati e di tutti i missionari nell’opera di annuncio del Vangelo. In fondo è proprio di questo che principalmente necessita il povero del Mozambico e il povero delle nostre città: Gesù Cristo! E di questo avvertimento avevo bisogno io stesso. Una conferma a quello per cui preoccuparmi prima di tutto, portarLo con la vita in ogni circostanza e luogo. Non dimenticando i progetti che i nostri frati conducono lodevolmente per ridare dignità umana a molti che non vengono nemmeno considerati tali dalla società opulenta e dalle multinazionali che sfruttano e deturpano i territori africani.
Nonostante i timidi progressi e le tante lentezze del Mozambico ancora legato ai culti degli antenati e spesso a vivere sincreticamente con il Vangelo, la missione cristiana è sempre fonte di gioia, lo è stato anche per me nel mio piccolo, soprattutto perché rinsaldato in quello per cui sono stato chiamato: il sacerdozio, cioè essere cibo per la vita eterna e capace di partecipare a molti anche attraverso questa esperienza, quanto bisogna “osare trasformare in sofferenza personale, quello che accade al mondo e così riconoscere qual è il contributo che ciascuno può portare” (Ibid, 19)
Un decisivo ausilio e beneficio ricevuto, mi è stato dato dalla condivisione di giornate di preghiera e di austera vita fraterna nella comunità di Morrumbala con P. Leone Innamorato, sempre vicino alle anime affidate al suo apostolato, portando Cristo e la sua Parola, per cui si è adoperato nelle traduzioni in lingue bantu, e nell’offrire l’istruzione elementare lì dove lo stato non è ancora giunto. In fondo il seme della sua azione apostolica, fatto di umiltà e felice sobrietà, è quel Dio che riempie di gioia e continua a edificare la vita, il più grande dei tesori e delle ricchezze che è chiamato ad annunciare ed anche io e tutti i credenti possiamo donare.
Concludo con un monito che traggo dall’ultima Enciclica di papa Francesco, che ha fatto da leitmotiv nell’esperienza africana ed in questo mio modesto scritto e testimonianza di quei giorni benedetti:
“E’ sempre possibile sviluppare una nuova capacità di uscire da sé stessi verso l’altro. Senza di essa non si riconoscono le altre creature nel loro valore proprio, non interessa prendersi cura di qualcosa a vantaggio degli altri, manca la capacità di porsi dei limiti per evitare la sofferenza o il degrado di ciò che ci circonda. L’atteggiamento fondamentale di auto-trascendersi, infrangendo la coscienza isolata e l’autoreferenzialità, è la radice che rende possibile ogni cura per gli altri e per l’ambiente, e fa scaturire la reazione morale di considerare l’impatto provocato da ogni azione e da ogni decisione personale al di fuori di sé. Quando siamo capaci di superare l’individualismo, si può effettivamente produrre uno stile di vita alternativo e diventa possibile un cambiamento rilevante nella società”(Ibid, 208).
Amen
Monopoli 21/09/2015 - Don Vito Castiglione